Quai des Orfèvres 36

interrogatorio di polizia al quai des orfèvres 36

Quai des Orfèvres 36: una scena del film del 1947.

Quai des Orfèvres 36.

Tutti noi, appassionati del noir, conosciamo bene questo indirizzo!

Quai des Orfèvres 36.

La seconda casa di Maigret! Oppure la prima? Quella in cui Maigret è veramente se stesso: un commissario divisionale della Polizia Giudiziaria di Parigi!

In realtà questo luogo, reso mitico da tanto cinema e letteratura poliziesca, non è più, da qualche anno, il cuore pulsante dell’attività investigativa della polizia di Parigi.

Solo un piccolo distaccamento della Bri (brigata di ricerca e intervento) rimane nella storica sede della PJ, per garantire un’azione immediata in caso di attacchi terroristici nel cuore della città.

La Brigata anti-crimine (Crim’), quella anti-droga (Stup’) e la stessa Bri, hanno ormai una sede di vetro ed acciaio; molto meno leggendaria, ma, sembra, più efficiente.

Gli uffici principali si sono spostati in un moderno palazzo, realizzato dall’architetto italiano Renzo Piano, a Batignolles, nel XVII arrondissemant.

Quasi un’ironia della sorte e un segno dei tempi che mutano inesorabili; la nuova sede della polizia di Parigi si trova ora proprio a ridosso di quella che, ancora solo cent’anni fa, era la “Zone” regno incontrastato degli Apaches.

Rue du Bastion 36: questo il nuovo indirizzo. Almeno il civico è rimasto uguale.

Ma la realtà è così poco importante per noi. Almeno quando siamo immersi nella lettura di un libro che amiamo, o che finiremo per amare, o nella visione di un bel film: vecchio o nuovo che sia.

È evidente che, per noi lettori e cinefili del settore, tutti questi mutamenti non hanno alcuna importanza.

Per noi il Quai des Orfèvres 36 rimane immutato ed immortale. Così come l’abbiamo conosciuto nell’omonimo film di Henri-Georges Clouzot del 1947, tratto dal romanzo di Stanislas-André Steeman, e, soprattutto, come ce lo ha raccontato Georges Simenon, nei tanti romanzi che hanno il commissario Maigret come protagonista.

Quai des Orfèvres 36: la casa del commissario Maigret.

Questo post non è comunque dedicato alla storica sede della Polizia di Parigi e, nemmeno, al rapporto tra il nostro commissario Maigret e le pareti, le scale, i corridoi del grande palazzo affacciato sulla Senna.

Nemmeno alle, più o meno improbabili, stufe di ghisa, né all’inossidabile vecchio portiere, eternamente presente al suo posto e, neppure, alla triste saletta d’attesa, tutta a vetri e con incorniciate le fotografie degli agenti caduti in servizio.

Sollecitati da un intervento apparso il 28 luglio 2019 sulla bella pagina social condivisa da tanti amici, appassionati di Maigret e del suo autore, abbiamo sentito il bisogno di indagare un po’ più a fondo la scelta che portò Simenon a creare la figura di un investigatore che fosse anche un poliziotto in servizio permanente effettivo e, soprattutto, le conseguenze che questa scelta ebbe sulla genesi, prima, e sull’evolversi, poi, della figura del commissario fumatore di pipa.

Questioni da ombrellone, se vogliamo, alle quali, per altro, chi poteva farlo, al meglio, ha già provveduto a fornire i chiarimenti necessari.

Questioni da ombrellone che, qualche volta, sollecitano in noi la voglia di andare a curiosare su di un determinato argomento e poi, magari, divagare a ruota libera.

Mi si perdoni il vezzo di scrivere in terza persona plurale, riferendomi al solo me stesso. Mi piace tantissimo! “Humanae miseriae“.

Come e perché Maigret?

Dunque, Georges Simenon, nel 1929, inventa un detective e decide che sarà un poliziotto. Anzi un funzionario di polizia di alto livello: capo e responsabile della squadra omicidi della Polizia Giudiziaria di Parigi.

Credo che proprio dopo aver definito questo personaggio, e averne colte tutte le potenzialità, Simenon decida che scriverà, non uno, ma una serie di romanzi con quel protagonista. E decide che su quella serie metterà il proprio nome e non il solito pseudonimo.

Dunque, alla fine, ha scoperto l’arcano!

Come arriva lo scrittore belga alla definizione di questo suo personaggio? E quanto è importante, per la fortuna del personaggio stesso, che questi sia un poliziotto?

Alla prima domanda possiamo rispondere solo che il come non è dato saperlo con esattezza (sono note le leggende in proposito), ma possiamo azzardare che sia il frutto di una precisa ricerca.

Alla seconda domanda possiamo invece rispondere che certamente no: essere poliziotto non è la ragione della fortuna di Maigret. Lo è senz’altro, piuttosto, essere quel tipo specifico di poliziotto voluto da Simenon.

Al momento di concepirlo, Simenon, ha difronte a se varie scelte possibili. La tradizione del romanzo giallo è ormai consolidata in tutta Europa e vive, probabilmente, il suo momento migliore.

Cosa fare? Ispirarsi a uno dei tanti personaggi già creati con successo da altri scrittori, magari inglesi o americani?

Sarà un investigatore dilettante o un professionista? Meglio forse un giornalista, uno scrittore, un medico o un prete?

Muscoli e rivoltella o cervello fino, più o meno, onnisciente? O entrambe le cose?

Un cane sciolto, un uomo “contro” il Sistema, un disadattato sociale al servizio della società? Oppure un beniamino di quella borghesia trionfante che tanti lettori fornisce proprio al nuovo genere poliziesco?

Perché non un figlio di quel popolo minuto che con fatica si ritaglia ogni giorno un posticino nel Mondo e nutre la sua fantasia leggendo giornali e riviste e mischiando letteratura e fait divers?

Poi c’è l’età da decidere. Giovane e irruente o vecchio, esperto e riflessivo? Prestante sciupa femmine o solitario e introverso? Mingherlino oppure grassissimo e pieno di manie?

E perché non donna?

Quanti detectives prima di Maigret!

In realtà, Simenon, queste svariate tipologie di personaggi, diciamo così, le sperimenta un po’ tutte. Non necessariamente con l’intento di arrivare infine ad una scelta definitiva.

Semplicemente (tra il 1926 e il 1929) scrive un’infinità di racconti, per lo più destinati a giornali e riviste, e, di volta in volta, crea personaggi nuovi.

Alcuni sono del tutto inediti anche se un po’ stereotipati, altri sono sicuramente ispirati da famosi autori che lo hanno preceduto.

Così se l‘Anselme Torres, bandito gentiluomo di Nox l’inossidable, è, probabilmente, ispirato all’Arsenio Lupin di Maurice le Blanc, il Gerard Moniquette, poliziotto della Sureté, di La femme in deuil e l’ispettore Georges Aubier di Un femme a tué, devono molto al Monsieur Lecoq e all’ispettore Tabernet del padre del giallo francese Émile Gaboriau.

Quel Maigret al 36 Quai des Orfèvres.

Senza indagare troppo oltre nella preistoria maigrettiana, eccoci a quel 1929: a quel primo romanzo, Pietr il lettone ed alla nascita di Maigret!

Credo di non sbagliare di molto affermando che, quello del poliziotto parigino, è un personaggio studiato a tavolino e studiato molto attentamente.

Magari Simenon non avrà impiegato più di tanto a definirne i contorni, ma dubito fortemente che si sia trattata di una semplice ed istantanea ispirazione.

E, se ispirazione istantanea c’è stata, poi è seguito un serio lavoro di analisi, di sgrossatura, prima, e di rifinitura poi.

Certo, negli anni, il personaggio evolverà, quasi di romanzo in romanzo, e, sempre negli anni, evolveranno lo stile e la profondità dei romanzi che lo vedono protagonista.

Ma quello che serve c’è tutto e c’è subito.

L’età non giovane, la stazza imponente, le origini popolari e gli atteggiamenti plebei. La scarsa propensione alla violenza, l’osservazione di ambienti e caratteri, la volontà di capire anche oltre la semplice certezza della colpa.Tutto questo è già ben presente fin da subito.

La vera novità di Maigret è tutta, proprio, nell’esatto calibro che Simenon riesce a dare al suo personaggio.

Certo, un eroe che sia anche un vero poliziotto, consente allo scrittore belga di conferire al racconto, ogni volta, un alone di realismo soffuso, ma autentico e palpabile. Cosa che, alla lunga, assai difficilmente accade quando il protagonista si occupi di delitti per accidente o per diletto.

Ma questo fatto da solo non sarebbe bastato.

In una Francia che aveva vissuto, giusto cent’anni prima, il successo delle Mémoires di Eugène-François Vidocq e quello, un poco più recente, del già citato Gaboriau: un poliziotto in più o in meno non avrebbe fatto la differenza.

Ci voleva la penna di Simenon. O la sua macchina da scrivere, se preferite.

Maigret è diverso “dentro”. Maigret è, per metà, uno di noi, migliore di noi. Per l’altra metà è un Simenon senza i drammi interiori di Simenon.

Pensandoci bene, credo che la cosa veramente stupefacente non sia solo che Simenon arrivi a concepire un tale personaggio: la cosa stupefacente è che ci riesca a soli 25 anni!

Maigret: il burocrate anti-burocrate!

Solo nei momenti più vuoti della sua esistenza, Maigret, si dedica diligentemente al disbrigo delle noiose pratiche amministrative che sono, pur sempre, parte integrante del suo lavoro.

Solo nei momenti vuoti o in quelli troppo pieni. Quando gli serve staccare per un momento dall’indagine in corso, per riannodare tranquillamente i fili ingarbugliati della matassa.

Oppure quando intende guadagnare tempo: ingannare e stremare l’avversario confondendogli le idee.

Per il resto le scartoffie si accumulano tranquillamente sulla sua scrivania, senza che questo lo impensierisca più di tanto.

Non è certo il burocrate grigio ed ottuso che spesso si associa idealmente alla condizione di funzionario statale! Ma, quando vuole, riesce facilmente ad assumere, esattamente, l’aspetto di questo stereotipo senza tempo.

È grande e grosso, addirittura pachidermico, ma riesce ad alternare lentezza estenuante e insospettata rapidità. Non certo per vezzo o vanità, ma per strategia e rapida adesione all’evolversi degli eventi.

Forte, ma mai violento e, comunque, mai compiaciuto dalla violenza. Non disprezza le armi, ma queste non sono certo un feticcio per lui.

Quando raccomanda ai suoi “ragazzi” di presentarsi armati ad un appostamento o ad un arresto è subito evidente che si preoccupa molto più della loro incolumità che non della cattura di un criminale.

Il sonoro ceffone che spesso minaccia e, più raramente, si lascia scappare, non rappresenta mai una sopraffazione di chi, in quel momento, è alle prese con la sua collera. Può essere il ruvido rimprovero d’un padre d’altri tempi o l’ultimo, definitivo marchio di disprezzo nei confronti d’un miserabile al quale non si può perdonare.

Maigret: la verità dentro la verità.

Maigret cerca una verità più profonda nascosta dentro la semplice verità dei fatti. Non lo fa per sfizio, diletto o vanità.

Agisce, molto, per dovere. Il suo compito è scoprire i colpevoli e il suo metodo è comprendere in profondità gli attori, per arrivare a definire i ruoli di ognuno di essi nella vicenda.

Agisce, anche, per una sorta di vocazione, di necessità interiore. In questo assomiglia un poco ad un bravo medico e Simenon non manca di ricordarcelo assai spesso.

Ed è qui che Maigret diventa un po’ Simenon e lo diventerà sempre più nello svolgersi della saga e nell’evolversi dei romanzi che la compongono.

Maigret vuole comprendere l’uomo. E Simenon? Vuole forse comprendere se stesso nel rapporto con la vita e gli altri esseri umani?

Forse è anche per questo che lo scrittore belga non riuscirà mai a liberarsi del suo personaggio.

Scrivere un Maigret o due, tra un romanzo “vero” e un altro, lo aiuta a scendere dentro se stesso. È terapeutico, un po’ rilassante e rende anche soldi. Cosa volere di più?

Giustizia: quella degli uomini, quella di Dio e quella di Maigret.

Con la Giustizia e con la sua amministrazione ha un rapporto che assomiglia molto a quello di ognuno di noi. Un misto di anelito, timore e fastidio.

La Giustizia è necessaria ed auspicabile, realizzarla è difficile e, ancora di più, lo diventa perché, inevitabilmente, ad amministrarla sono uomini che il loro stesso ruolo spinge, o relega, lontano dal quotidiano della gente. Quella gente che vive fuori dai palazzi, dove i gesti e le parole hanno significati diversi da quelli comuni.

Maigrert non è l’elemento estraneo al Sistema che, suo malgrado, il Sistema subisce ed al quale si oppone strenuamente quanto inutilmente.

Maigret è il Sistema come dovrebbe essere e, come tale, lavora e, allo stesso tempo, si confronta con esso  quotidianamente. Subisce, se non può evitarlo, o si ritaglia il suo spazio d’azione quando gli è possibile. Mai contro a priori e sempre pronto a pagare di persona se necessario.

Se poniamo attenzione ci accorgiamo che, in tutte le inchieste in cui egli opera in veste ufficiale, il commissario cerca di agire secondo il proprio metodo, ma, quando e se, un giudice Coméliau, viene a mettergli i bastoni tra le ruote, Maigret non può fare altro che adattarsi se non addirittura subire le decisioni altrui (come, ad esempio in Il corpo senza testa).

Quando, al contrario, Maigret opera fuori dalla propria giurisdizione, in veste quasi di detective privato, o quando ormai si trova in pensione, è lui a decidere come, quando e se arrivare alla soluzione del caso. Pronto a scegliere, persino, se consegnare o meno un colpevole alla giustizia (La casa dei fiamminghi).

Esiste poi un caso emblematico, vero capolavoro di Simenon, in cui il nostro commissario arriva al punto di emettere una sentenza propria, dopo aver dimostrato, in verità con la complice condiscendenza di un Giudice togato, che proprio in tribunale si stava per commettere un’ingiustizia (Maigret in corte d’Assise)!

Ma tutto è giocato con grande equilibrio, senza enfasi e senza J’accuse lanciati al vento.

Quasi il lettore nemmeno se ne accorge e tutta la vicenda sembra svilupparsi nel modo più casuale e, insieme, più naturale possibile. Eppure percepisci l’ostilità di Maigret per tutte le ingiustizie, le umiliazioni, in definitiva, le sofferenze che uomini possono infliggere ad altri uomini in virtù del loro momentaneo potere su di essi. Sia esso un potere fisico o psicologico: proditorio o legalmente riconosciuto.

Vi è, in quelle pagine, una critica soffusa, quasi lieve, ma chiara ed inequivocabile. Una critica che non produce scandalo, né appare frutto di partigianeria, perché, essa, non conduce né ad un rimedio né ad una speranza. Non si tratta della critica ad un determinato Sistema, ma ad ogni sistema in quanto prodotto dagli uomini e, di conseguenza, soggetto a tutti i limiti umani. Limiti che sono davvero tanti!

C’è, del resto, nella Francia di quegli anni, quasi un bisogno di “realismo”, inteso come  adesione alla vita quotidiana della gente più semplice o più disperata. Un realismo che poi ogni autore interpreta a modo suo; mescolandovi sogno, illusione, disincanto, disperazione, o fantasia.

Un esempio su tutti quel Pierre Mac Orlane che Simenon ha probabilmente conosciuto fin dai suoi primi anni a Parigi (forse proprio a Montmartre) e che nel 1927 pubblica quel suo Le Quai des brumes per i tipi di Gallimard, che mi stupirebbe molto Simenon non abbia letto.

Maigret al Quai des Orfèvres: la belle équipe!

Stabilito che, il Maigret di Simenon, deve il suo successo esattamente al fatto di essere… il Maigret “di Simenon”, ci rimane un ultimo aspetto tutt’altro che secondario: i collaboratori di Maigret.

Il nostro commissario, come sapiamo, non è un semplice poliziotto, è un capo dipartimento. Ai suoi ordini ha innumerevoli subalterni, verosimilmente di ogni grado.

Di tutti, Simenon, ce ne fa conoscere solo alcuni e nemmeno troppo in profondità.

Si tratta di un ristretto numero di ispettori, quattro per l’esattezza: Lucas, Janvier, l’eternamente piccolo Lapointe ed il corpulento Torrence.

Quattro uomini, molto diversi per aspetto e caratterizzazione, che hanno in comune tra loro soltanto la totale dedizione al lavoro ed al commissario Maigret, che chiamano famigliarmente “Capo”.

Di loro sappiamo ben poco in definitiva: alcuni dettagli fisici, pochi cenni all’età, alle origini ed alle famiglie.

In alcuni romanzi compaiono appena, in altri hanno ruoli importantissimi. Alcuni di loro muoiono, ma poi, come nulla fosse, vengono recuperati in seguito e ritornano ad operare più attivi che mai.

Più ci si addentra nello scorrere della saga più la loro presenza si fa costante e corale.

Eppure, in fondo, conservano quel tanto di indefinito che consente loro, fedeli fino all’ultimo, di non prevaricare mai sulla figura centrale del commissario.

Li amiamo perché Maigret li ama. Li ama come fossero suoi figli, anche se, tranne appunto il piccolo Lapointe, tutti hanno pochi anni di differenza dal loro capo.

Rappresentano, sia singolarmente che insieme, quell’essenziale trait-d’union tra l’azione individuale del Maigret investigatore e quella necessariamente corale del Maigret poliziotto.

Anche questo contribuisce a rendere, del commissario parigino, un immagine “realistica”, scevra da ogni sensazionalismo. Perfettamente umana ed inserita in un contesto “più vero del vero”, ma mai banale: vicina ed insieme distante dalla vita di ciascuno di noi.

Ancora un perfetto equilibrio dove nulla stona né stride mai.


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Quai des Orfèvres 36ultima modifica: 2019-09-08T03:15:18+02:00da albatros-331
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